Del presente articolo è autore o curatore il dott. Rocco Panuccio, cultore di storia locale ed esperto in beni storico-artistici e culturali. Ogni riproduzione, anche parziale (citazione diretta), è vietata senza espressa autorizzazione ed ogni utilizzo di notizie (citazione indiretta) senza citarne la fonte costituisce condotta sleale e grave disonestà intellettuale.
In passato nella chiesa del Carmine era forte la devozione verso san Pasquale la cui festa ricorre il 17 maggio. Ogni anno, durante la tradizionale e solenne festa, i contadini invocavano san Pasquale che avevano eletto a loro protettore e portavano in chiesa, di ciascuna specie, le zucche più grosse della loro produzione, per ingraziarsi l’intervento del Santo per la successiva stagione. Era una gara fra i coltivatori sia per la quantità che per la qualità della loro produzione. A questo proposito si racconta che circa ottant’anni fa, un coltivatore, certo Domenico Briganti, produsse una “cucuzza i porcu” di 114 chili che, per essere trasportata in chiesa, dovette avvalersi delle braccia di quattro uomini robusti. Nel giorno della festa di san Pasquale, i contadini presentavano al Santo anche le primizie della terra coltivate con il loro sudore. Il Santo veniva poi portato in processione fino alla periferia del centro abitato dove c’erano soltanto orti, oggi convertiti per la maggior parte in zone residenziali. Alla fine della processione, approfittando della mitezza delle serate di maggio, il popolo esultante di gioia concludeva la festa con giochi semplici e popolari come: la corsa nei sacchi, il gioco del “palorgio” (trottola) e tanti altri svaghi accompagnati dall’allegra musica popolare tratta dai tamburelli e dagli organetti. La musica invitava a ballare la tarantella e anche a cantare canti popolari. Il tutto veniva intervallato da allegri spuntini a base di pane e salame, formaggi e fave fresche, naturalmente innaffiati dal buon vino locale. Un anno, una di queste feste diede origine all’episodio che mi sono proposto di raccontare. Il sacrestano della chiesa, guarda caso, si chiamava Pasquale ed aveva l’abitudine di fare molto onore… al vino locale, per cui quell’anno, alla fine della festa si ritrovò alquanto sbronzo. Nonostante ciò cercò ugualmente di svolgere il suo compito di sacrestano e, sia pure barcollando, cercò di mettere a posto ogni cosa perché alla fine toccava a lui chiudere la porta della chiesa. Il vino in corpo non gli consentiva però un giusto orientamento, anche perché a quei tempi la luce elettrica non c’era ancora e la chiesa era insufficientemente illuminata. Andò a finire che il poveretto inciampò in qualche cosa e, per non cadere, si aggrappò al primo sostegno che si trovò davanti, pensando che si trattasse di qualcuno dei fedeli. Quando invece si rese conto che era proprio la statua di san Pasquale, già sistemata nel suo luogo consueto, con molta semplicità esclamò: O san Pascali, non t’affindiri chi simi tra nui. Come dire: se non ci aiutiamo tra di noi che siamo di casa…
Rocco Picone